“I Disturbi del Comportamento Alimentare non sono un Capriccio!” di Michela La Stella

I disturbi del comportamento alimentare (DCA) sono patologie caratterizzate da una alterazione delle abitudini alimentari e da un’eccessiva preoccupazione per il peso e per le forme del corpo. Insorgono prevalentemente durante l’adolescenza e colpiscono soprattutto il sesso femminile.

I comportamenti tipici di un disturbo dell’alimentazione sono: la diminuzione dell’introito di cibo, il digiuno, le crisi bulimiche (ingerire una notevole quantità di cibo in un breve lasso di tempo), il vomito per controllare il peso, l’uso di anoressizzanti, lassativi o diuretici allo scopo di controllare il peso, un’intensa attività fisica. Soprattutto in adolescenza alcune/i ragazze/i possono ricorrere a uno o più di questi comportamenti, ma ciò non vuol dire necessariamente che essi soffrano di un disturbo dell’alimentazione. Ci sono infatti dei criteri diagnostici ben precisi che chiariscono cosa debba intendersi come patologico e cosa invece non lo è.

Soffrire di un DCA, oltre alle conseguenze negative sul piano organico, con serie complicanze fisiche, comporta quindi effetti importanti sul funzionamento sociale della persona, con gravi penalizzazioni della qualità di vita; ne limita le capacità relazionali, scolastiche/lavorative, sportive e sociali. Tuttavia, solo una piccola percentuale di persone che ne soffrono chiede aiuto e un’altrettanta piccola percentuale di genitori si accorge che il/la proprio/a figlio/a hanno condotte riconducibili ad un DCA, e che nascondono quindi una sofferenza più profonda. Chi soffre di un Disturbo del Comportamento Alimentare utilizza il corpo come mezzo per comunicare un disagio, una sofferenza e dei bisogni ben più profondi.

Quali le Cause?

Oggi si ritiene che i disturbi del comportamento alimentare siano la conseguenza dell’interazione tra più fattori predisponenti: genetici, biologici, individuali, famigliari, socioculturali. A questi si aggiungono i fattori scatenanti, vale a dire tutte quelle situazioni che precedono l’insorgenza del disagio e sembrano quindi averlo provocato in modo diretto, di per sé quindi, non sono in grado di causare un DCA, ma possono indurlo in persone vulnerabili e predisposte, fungendo così da fattori di rischio. Tra questi si collocano sia tutti quegli eventi e situazioni fortemente traumatici (lutti, violenze, abusi e condizioni di grave trascuratezza), sia tutti quegli eventi meno apparentemente traumatici come: fallimenti scolastici, lavorativi e affettivi (delusioni amorose o difficoltà di relazione con partner, amici e genitori), conflitti o separazioni dei genitori, cambiamenti di vita, di città, di scuola o casa, malattie.

Talvolta possono non esserci episodi evidenti di difficoltà, ma una serie di impegni vissuti come insostenibili che possono portare a un senso di inadeguatezza scatenante. Allora anche eventi apparentemente positivi come la fine della scuola, l’inizio di un nuovo lavoro o di una nuova relazione o un viaggio all’estero, possono funzionare da innesco, proprio, ad esempio, a causa della paura di non essere all’altezza.

Infine, intervengono i meccanismi di mantenimento responsabili del persistere del disturbo: spesso, uno di questi meccanismi è proprio il comportamento dei genitori, che, nel tentativo di aiutare il proprio figlio, mettono in atto condotte che possono divenire fattori perpetuanti.

Cosa possono fare i genitori?

In questi casi gli interventi precoci potrebbero essere davvero molto efficaci per l’andamento del trattamento; perciò, sarebbe molto importante da parte dei familiari cogliere al più presto quei segnali di allarme che potrebbero indicare la presenza di un DCA. Chi soffre di disturbi alimentari spesso cerca di mantenere segreti i suoi comportamenti e le proprie abitudini alimentari malsane, ma ci sono alcuni comportamenti che si configurano come campanelli d’allarme. Vediamone alcuni: perdita di peso inaspettata, conteggio delle calorie, esercizio fisico eccessivo, diradamento dei capelli e spossatezza, salto dei pasti, evitamento dei pasti in compagnia e/o fuori casa; esercizio fisico eccessivo, uso di lassativi e diuretici, costante mal di gola, enormi quantità di cibo in camera, ingiallimento dei denti, eccessivo tempo trascorso in bagno subito dopo i pasti.

Anche nel caso dei disturbi alimentari, secondo la Control Mastery Theory, i sintomi e i comportamenti devono essere letti all’interno di un’ottica che vede i pazienti alle prese con il desiderio di disconfermare una serie di credenze patogene che associano la propria indipendenza, il proprio successo e il legittimo bisogno di separazione a forti vissuti di colpa nei confronti dei propri cari. Vissuti carichi di sofferenza coinvolti non solo nella strutturazione, ma anche nel mantenimento dei disturbi alimentari. (Gazzillo, 2022)

In un articolo molto interessante, Michael Friedman (1985) affronta il tema dei disturbi alimentari nell’ottica della Contro Mastery Theory proponendone una visione che legge i disturbi alimentari all’interno di contesti famigliari sottolineando come questi disturbi rendano difficile la differenziazione e lo svincolo (Gazzillo, 2022). Friedman (1985) sottolinea poi che alcuni atteggiamenti tipici dei pazienti con disturbi alimentari in terapia possono essere interpretati come dei test che questi pazienti fanno (anche all’analista) nella speranza che questi disconfermi le credenze patogene alla base dei loro sensi di colpa (Gazzillo, 2022).

Le condotte del disturbo alimentare potrebbero quindi essere lette e interpretate come dei test che i pazienti mettono in atto cercando di disconfermare le proprie credenze patogene, spesso, chi soffre di questi disturbi ha sviluppato maggiormente sensi di colpa da odio di sé , causate da esperienze di trascuratezza, maltrattamento, abuso fisico e psichico da parte dei caregiver in cui il piccolo, nel tentativo di preservare il legame, si è identificato con le loro umiliazioni, le critiche, le accuse ecc.., pensando di meritarle; e sensi di colpa da separazione/slealtà si sviluppa quando le spinte verso l’autonomia e la differenziazione (fisica e psichica) dalle figure di riferimento si associano a manifestazioni di sofferenza da parte dei genitori. (Gazzillo, 2016).

Alcuni suggerimenti utili per i genitori potrebbero essere: stabilire abitudini alimentari sane, mangiare pasti sani ed equilibrati; discutere di quanto gli alimenti siano sani, non “buoni” o “cattivi”; non criticare l’aspetto fisico dei bambini/ragazzi. Soprattutto durante l’adolescenza, un momento così delicato per la maggior parte dei ragazzi, è essenziale fornire un ambiente che rappresenti per loro un sostegno e un porto sicuro; prestare maggiore attenzione se vi è familiarità per i disturbi alimentari; rivolgersi tempestivamente a uno specialista se si ritiene che il proprio figlio possa avere un disturbo alimentare.

Le persone, i ragazzi, che soffrono di disturbi alimentari non sono tutti uguali e neppure le loro famiglie. Spesso per la cura di questi disturbi è utile coinvolgere equipe multidisciplinari altamente specializzate con lo specifico compito e ruolo di sostenere e aiutare anche i familiari, rispondendo alle loro domande e cercando di provare a capire ogni singola situazione e cercando di trovare, insieme a loro, una strategia virtuosa.

Uno degli aspetti più importanti che emerge quando in una famiglia uno dei figli comincia ad avere problemi a livello psicologico, è la ricerca del “perché”. Un pensiero ricorrente nei familiari è: “è colpa nostra?”, “dove abbiamo sbagliato?”. E’ importante invece ricordare che colpevolizzare sé stessi o gli altri non aiuta, anzi incrementa ancora di più il senso di inadeguatezza, vergogna e più in generale alimenta le credenze patogene (Gazzillo, 2016).

L’interrogativo da porsi quindi non è: “di chi è la colpa?”, ma: “qual è la cosa migliore da fare adesso? Cosa possiamo fare per aiutare nostro/a figlio/a?” “quale significato si cela dietro a questo comportamento? Il senso di colpa impedisce di vedere le vie di uscita, causa dissapori tra i familiari (che magari si incolpano a vicenda) e contribuisce a mantenere o a cronicizzare il disturbo stesso.

Anche quando è il figlio o la figlia a parlare delle “colpe” dei genitori, bisogna evitare di cadere in questo “tranello”. E’ importante essere uniti poiché all’interno della famiglia esiste un obiettivo comune: combattere il disturbo dell’alimentazione (e non combattere tra persone). Anche quando le difficoltà tra coniugi o tra familiari esistono anche da prima dell’insorgenza del disturbo, questo obiettivo comune deve aiutare ad agire in sintonia.

Allo stesso modo, è importante che i genitori non colpevolizzino la persona malata, poiché anche questo non serve. Colpevolizzare chi soffre in genere deriva da scarse conoscenze sull’origine di questi disturbi. La persona che soffre va invece sostenuta, indirizzata e aiutata a chiedere aiuto ad un centro specialistico.

Bisogna altresì cercare di non vergognarsi né dei vostri figli, né di voi stessi; non allontanarsi o isolarsi dagli altri, ma cercate di trovare appoggio nelle persone care vicine, e negli specialisti, chiedendo aiuto. Anche il senso di vergogna come il senso di colpa è controproducente e spesso questi due sentimenti sono correlati tra loro.

Un disturbo dell’alimentazione è una malattia e non è una “questione di volontà” o “un capriccio”: i disturbi alimentari non sono affrontabili con la semplice forza di volontà. Spesso richiedono un lungo e faticoso percorso di cura. È meglio quindi evitare frasi come: “sei tu che non ti impegni a guarire” oppure “sono sicuro che ce la puoi fare, basta che ce la metti tutta”. Quando poi una persona non ce la fa (e da soli è veramente difficile riuscirci) perde ancora una volta la fiducia e stima in sé stessa e, a questo punto, anche quella dei genitori. È importante invece comprendere la sofferenza e il significato profondo che si cela dietro a questi comportamenti così disfunzionali e pericolosi per la vita di chi ne soffre, cercando di sintonizzarsi con quei vissuti per garantire un maggior senso di sicurezza.

Lascia un commento